«Ma Šuchov era fatto proprio in quel modo cretino, nè gli otto anni passati nei campi di prigionia erano valsi a fargli perdere quell'abitudine: apprezzava ogni cosa ed ogni lavoro e non poteva permettere che si rovinasse inutilmente. Calcina! Mattone! Calcina! Mattone! "Abbiamo finito, porco diavolo!" - urlò Senka. - "Filiamo!". Afferrò il cassone e scese la passerella. Ma Šuchov fece prima qualche rapido passo indietro sullo spiazzo per dare un'occhiata al muro, e non avrebbe cambiato idea neppure se la scorta gli avesse aizzato contro i cani. Non c'era male. E poi si avvicinò di corsa al muro, si chinò sopra di esso per vedere la superficie esterna a destra e a sinistra. Aveva un occhio che era meglio di un livello a bolla d'aria! Il muro era perfetto. Il braccio non era ancora invecchiato»
(Aleksandr Isaevič Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič)
"Una giornata di Ivan Denisovič" è un romanzo del 1962 in cui l'autore, Aleksandr Solženicyn, descrive un giorno nella vita di Ivan Denisovič Šuchov, prigioniero in un campo di lavoro sovietico. Attraverso la sua esperienza, Solženicyn esplora il significato del lavoro in un contesto di estrema oppressione. Il protagonista è chiuso in un gulag siberiano. Per passare la giornata e imparare l’obbedienza totalitaria che intende ridurre l'uomo a cosa (cercando di privarlo, passo dopo passo, della sua umanità), è costretto a costruire durante il giorno un muro che sarà abbattuto nella notte. Una sera Šuchov sente il segnale di rientro al campo, che pone termine alla giornata di lavoro. Pur essendo ormai tardi, egli decide di non abbandonare l'opera che stava compiendo. Šuchov è intenzionato a finire di costruire bene il muro a tutti i costi. Infatti, la brutalità del sistema dei gulag gli aveva tolto tutto ciò che aveva, ma di una cosa non poteva privarlo: della sua umanità. Per lui il lavoro è l'unico modo di affermare il suo valore di uomo.
Dopo aver letto questo racconto, sempre mi viene da domandarmi: "E io perchè lavoro?". Questo "perchè", non si riferisce tanto a una motivo; quanto piuttosto a un fine. Quindi, potremmo riformulare la domanda in questo modo: "Per quale fine io lavoro?". È una domanda fondamentale, con cui bisogna fare i conti prima o poi e la cui risposta determina la scelta della persona che intendiamo essere.
Oggi, la maggior parte delle persone opera una frattura tra lavoro e vita. Molti, ad esempio, vivono il lavoro come occupazione. Quando però si ragiona in questo modo, si assiste a una scissione dell'opera di fatto dal lavoratore, e quindi il lavoro è ridotto a mezzo di scambio per accumulare denaro da utilizzare per soddisfare bisogni. In questo modo, il lavoro è collegato alla sicurezza economica; ma la vita sta altrove...nel tempo libero e nel riposo. Altri, invece, fanno del successo a lavoro, percepito esclusivamente come possibilità di carriera, il senso della loro vita. La vita del lavoratore viene però così definita dalla posizione che egli raggiunge e cioè dal suo prestigio; ma ancora il lavoro non ha un significato in sé. L'esperienza di Ivan Denisovič descrive, invece, una terza possibilità che connette il significato del lavoro con l’immediato e ultimo significato della vita personale. In altri termini, il lavoro contiene in sé una promessa: permette di esprimere subito, mentre si lavora, la realtà dell'uomo e la possibilità di contribuire alla sua realizzazione.
Marta