07 Dec
SCRIVERE PER RESTARE VIVI

Perchè serve scrivere?

“Forse basterebbe spiegare allo studente che scrivere è un modo per interrogare sé stesso e per mettere ordine nel proprio vissuto e nei propri pensieri.” 

Leggendo l’intervista rilasciata qualche mese fa dal Prof. Roberto Antonelli in occasione del dibattito sullo scritto dell’esame di Stato, sono molti gli spunti che sorgono per riflettere sul valore della scrittura. Antonelli presenta la scrittura come strumento prezioso per mettere in ordine il proprio vissuto e per indagare la verità di sé stessi. Egli, tuttavia, parla di un “rapporto conflittuale e angoscioso” con il foglio bianco: la scrittura costa fatica perché obbliga l’uomo a spogliarsi. Questa totale apertura richiede un lavoro di introspezione, che talvolta può spaventare, ma che consente di portare alla luce una più autentica consapevolezza di sé. Ho ben presente quella sensazione di paralisi di fronte a un foglio ancora intonso e quella paura di “non sapere cosa scrivere” che altro non è che il timore di non avere nulla che valga la pena di essere scritto. E se anche si scoprisse qualcosa da scrivere, ecco allora che sorgerebbe la paura di non trovare le parole giuste, di non saper dare al pensiero una forma fedele all’intenzione: "Davvero questo pensiero è degno di essere messo per iscritto? Come?". Così prende avvio un faticoso lavoro di vaglio che chiede di arrivare al cuore di ogni questione. 

La scrittura come frutto di un lavoro faticoso è un tema che si ritrova all’origine stessa della nostra letteratura. Il cosiddetto "Indovinello veronese" è il primo testo conosciuto scritto in volgare italiano, tracciato da un ignoto copista in forma d'appunto presso il margine superiore di un codice pergamenaceo più antico. Fu Vincenzo De Bartholomaeis a proporre per primo un’ipotesi interpretativa al testo: un vero e proprio enigma, che paragonava la scrittura alle attività agricole dell’aratura e della semina. La relazione concettuale tra aratura e scrittura diventerà celebre molto più tardi grazie a una poesia di Giovanni Pascoli dal titolo “Il piccolo aratore”. Nel componimento, lo scolaretto che riga il foglio con le linee della scrittura è come un piccolo aratore che traccia con molta fatica i solchi nel campo. 

La scrittura richiede un grande sforzo perché obbliga l’uomo a dar voce ai propri pensieri attraverso un viaggio interiore. A tal proposito, interessante è l’analisi etimologica delle parole “viaggio” e “lavoro”. L’inglese “to travel”, che significa “viaggiare” ha la stessa radice del francese “travail”, che sta per “lavoro”. Esisterebbe un'origine comune, una parola latina di uso non molto frequente, “tripalium”, cioè l'attrezzo con cui si soggiogavano i buoi ribelli. Passando dal francese all’inglese non c'è solo l'idea di fatica; c'è anche quella di una violenza necessaria per domare, per riportare all'ordine, magari per placare un istinto. Scrivere, dunque, significa dare un’espressione ordinata a ciò che si nasconde nel nostro animo in uno stato ancora grezzo. Questo travaglio si accompagna a una nuova nascita, cioè alla scoperta di sé stessi. 

Durante il periodo della pandemia mi sono spesso ritrovata in silenzio, a scrivere, solo per me. Per la prima volta sono stata costretta a dar voce a quei pensieri che ero solita soffocare nel caos della routine. Una volta tornata la situazione a una timida normalità, subito è ripresa la retorica, le discussioni faziose e la frenesia di una vita sempre di corsa che spesso rischiano di far svanire anche quei rari momenti di riflessione intima di cui abbiamo bisogno. Eppure, proprio in mezzo a queste voci confuse e contrastanti, ora più che mai c’è bisogno di parole vere, di quei semi che la mano dello scrittore mette nel campo arato della pagina bianca, di quel tesoro che serve a smuovere le parti brulle e rinsecchite dell’animo umano.


Marta

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